Fuorisalone 2024 tra piante e fiori

Milano sboccia con il Fuorisalone. Edifici storici fanno da cornice a installazioni d’autore e sembrano attraversati da una ventata di novità.

 

Come fiori recisi, alcuni luoghi, in piena fioritura nelle precedenti edizioni, ora sono un po’ appassiti o trasformati; altri, invece, entrano in questa kermesse facendo anche conoscere angoli meno noti della nostra città del secolo scorso, talora un po’ in disparte e a volte dimenticati.

 

Come api di uno sciame ci spostiamo da un luogo all’altro, da un distretto all’altro, alla ricerca di qualche “fiore” su cui posare lo sguardo. Alla Rotonda della Besana anche la Lego gioca con la natura e crea insoliti fiori.

 

Per questo Fuorisalone abbiamo scelto di guardare soprattutto le piante e i fiori che spesso accompagnano le diverse installazioni.

 

Iniziamo questo viaggio nel verde da piazza Duomo con l’Oasi Zegna inaugurata proprio per questa Design Week. Le aiuole, ancora un po’ spoglie, sono composte da piante di canfora, rododendri e piccoli fiori caratteristici dell’omonimo parco naturale delle Alpi biellesi.

 

Queste piante hanno sostituito, dopo un concorso, palme e banani che avevano fatto tanto discutere, ma che si erano, infine, bene integrati nel nuovo habitat. Si dice che verranno ripiantati altrove… Siamo sicuri sia un buon messaggio cambiare le piante dopo qualche anno, all’arrivo di un nuovo sponsor? Rispetto per l’ambiente o per il business?

 

Ben altri messaggi sono quelli di Città Miniera di Solferino 28, dove gli edifici sperimentali sono costruiti con cassette di legno e le piante viste come una risorsa per l’ambiente.

 

Scrive un vivaista che ha curato questo progetto: “Le piante hanno la capacità di adattarsi e di utilizzare un limitato quantitativo di risorse… In cambio assorbono anidride carbonica e donano ossigeno… Fissano le polveri sottili e regalano ombra e oasi di tranquillità”. Chi non vorrebbe riposare un po’ su questa panchina del giardino di Palazzo Reale?

 

Ai Giardini Cederna, davanti all’Università Statale, ci sono alcuni alberi coi tronchi vestiti a festa per sostenere la piantumazione a favore di comunità contadine.

 

Anche quest’anno molta attenzione è stata riservata alla sostenibilità ambientale come l’utilizzo di materiale di origine vegetale, come questi mattoni di canapa

 

E se la natura abbatte le piante? Ecco qualche esempio di riciclo creativo, come questi originali totem, esposti in piazza San Fedele, e realizzati, dopo il nubifragio del luglio scorso, col legno di alcuni degli alberi sradicati.

 

Infine, una miscellanea di immagini, non solo di piante e fiori, che abbiamo colto qua e là.

 

Per i romantici che hanno nostalgia della nebbia lombarda, chiudiamo con questa installazione tra acqua e nebbiolina, realizzata da Amazon all’Università Statale.

A presto…

Pasqua d’autore al Museo Diocesano

Quest’anno il Museo Diocesano, in occasione della Pasqua, propone come spunto di riflessione il “Compianto sul Cristo morto” di Giovanni Bellini, opera proveniente dai Musei Vaticani.

 

Questo dipinto venne realizzato verso il 1475 nell’officina veneziana dell’artista per l’altare maggiore della chiesa di San Francesco a Pesaro. L’opera era la cimasa di un altro più grande quadro dello stesso autore, “l’Incoronazione della Vergine”, dello stesso autore, che oggi si trova nel Museo Civico della città marchigiana. Ecco la ricostruzione allestita al Diocesano.

 

La Pala del Compianto non è molto grande (misura circa 1 metro per 85 centimetri) e rappresenta il momento in cui il Corpo di Cristo viene cosparso di unguenti prima di essere deposto nel Sepolcro.

 

La scena si svolge all’aperto sotto un cielo azzurro, quasi simbolo di speranza fra tanto dolore.

 

Intorno al Cristo ci sono Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e una giovane e bellissima Maddalena. I loro volti sono assorti e composti, gli occhi socchiusi come se tutte le lacrime ormai fossero state versate e il dolore si rivelasse ora in un gesto di amore e di estrema pietà.

 

Sappiamo dai Vangeli che Giuseppe d’Arimatea era andato da Pilato per chiedere il Corpo da deporre nel sepolcro. In questo dipinto è lui, vestito con un ricco abito rosso, che sorregge Gesù, quasi appoggiandolo al proprio corpo, tanto che il suo volto rimane seminascosto e le loro barbe sembrano confondersi.

 

Nicodemo, la figura più alta nella scena, tiene in mano un prezioso vasetto di “mirra e aloe”, balsami con i quali la Maddalena sta ungendo le ferite di Gesù. Il volto dell’uomo esprime un profondo senso di meditazione e quasi di attesa.

 

Al centro di tutta la scena ci sono il Cristo e la Maddalena. La figura di Gesù è quasi seduta, con le gambe avvolte da un lenzuolo bianco. Sul costato spicca la ferita che sembra ancora aperta.

 

La Maddalena, accanto a Lui, tiene tra le sue la mano sinistra di Gesù, in uno struggente, dolcissimo intreccio, quasi per ricevere e offrire amore e conforto.

 

Questa immagine delle mani, così ricca di pathos ci ha fatto pensare a quelle dipinte da Leonardo nell’Ultima Cena, alle diverse emozioni e al groviglio di sentimenti (rabbia, stupore, accettazione…) che riescono ad esprimere. Ne riparleremo presto.

 

In questa Pala, invece, il Sacrificio si è ormai compiuto; questo è il tempo della pietà, del Compianto (piangere insieme), dell’estremo saluto con un gesto di amore e di speranza che va oltre la morte.

 

A tutti un affettuoso augurio per una Pasqua serena.

A presto…

La storica cartoleria dei Fratelli Bonvini

 

Il Corriere della Sera ha proposto di dedicare il mese di marzo alla poesia.

 

Questa iniziativa ci piace molto. I nostri tempi hanno bisogno di umanità e di poesia oggi e anche quando si pensa al futuro. Abbiamo quindi pensato di dedicare questa pagina del nostro blog ad una milanese DOC, Leila Bonvini, che è stata titolare di una storica cartoleria e autrice di poesie in dialetto milanese. Si parlerà di lei e di poesia al femminile il 15 marzo nella storica bottega di via Tagliamento 1, che Leila ha portato avanti per molti anni con il marito, Luigi Cambieri.

 

Questa cartoleria è stata fondata nel 1909 dai fratelli Bonvini, Costante e Luigia, in una zona tutta in divenire, tra il canale Redefossi, lo scalo Romana, capannoni, botteghe artigianali e tanto spazio dove costruire case.

 

L’imponente chiesa di San Luigi era terminata da pochi anni e il suo alto campanile scandiva le ore di vita e di lavoro degli abitanti di questo quartiere.

 

Ora la zona è molto cambiata. Il Redefossi scorre sotto la linea gialla della metropolitana, lo scalo Romana sta diventando il Villaggio Olimpico per le prossime Olimpiadi Invernali del 2026, i capannoni e lo spazio libero di un tempo sono stati trasformati in case e supermercati, la piazzetta davanti alla chiesa da parcheggio è diventata una graziosa isola pedonale.

 

In questo continuo cambiamento, solida e rassicurante, la cartoleria Bonvini è rimasta immutata, uguale a com’era oltre cent’anni fa, quasi radice di un albero secolare da cui spuntano sempre nuovi germogli.

 

Entriamo in questa storica bottega, che compare anche nelle guide turistiche della nostra città, ripensando all’atmosfera “vecchia Milano” di tanti anni fa quando Leila si rivolgeva in dialetto ai clienti e Luigi l’aiutava lasciando la propria chitarra, che suonava nei momenti di pausa.

 

Gli arredi sono ancora quelli di inizio Novecento, in legno con parti dipinte di verde. Il bancone, a ferro di cavallo, è circondato da scaffali con ante, antine, cassetti e cassettini per contenere, ben suddivisi, grandi e piccoli articoli.

 

Chi di noi (ormai nonni) non ricorda i pennini dalle forme diverse? I coniugi Bonvini (Luigi diceva, con bonaria ironia, che da quando si era sposato era conosciuto col cognome della moglie) aiutavano, sempre pazienti e sorridenti, a scegliere penne, matite e quaderni, quasi fossero i custodi degli strumenti da consegnare ai bambini perchè potessero sentire che stavano per trovare un tesoro: imparare a scrivere.

 

Per le “cose serie”, da grandi, c’erano i tasti delle macchine da scrivere, come le mitiche Olivetti che oggi sono esposte in questa cartoleria-museo, ricca di oggetti di modernariato che riguardano il mondo della scrittura e che si possono ammirare ancora oggi.

 

Sopra il bancone del locale, c’è ancora il soppalco d’epoca, con la balconata anch’essa in legno verde. L’affitto, dicevano i proprietari con ironia e concretezza tutta milanese, si paga da terra al soffitto.

 

Nel corso del tempo la cartoleria era diventata anche tipografia e legatoria. Si stampavano documenti commerciali, locandine, biglietti da visita, partecipazioni di nozze e battesimi, immaginette per ricordare chi non c’era più. Si rilegavano dispense di enciclopedie, libri rovinati, tesi di laurea… Lo scorrere della vita di questo quartiere è passato anche da qui e da queste macchine da stampa, ancora oggi perfettamente funzionanti.

 

Da una decina d’anni la “Bonvini” è passata a un gruppo di soci che ha voluto mantenere intatta la vecchia bottega con un attento recupero. Oltre alla vendita di materiali per la scrittura, di libri e di stampe artistiche scelti sempre con appassionata attenzione, vi si tengono incontri, corsi, mostre ed eventi come questo sulla poesia.

 

Questa cartoleria, un tempo prevalentemente di quartiere, oggi è diventata anche un importante centro di riferimento culturale per la nostra città, una bottega-museo da conoscere.
https://www.bonvini1909.com

A presto

Aspettando Natale: entriamo in Casa Manzoni

A Casa Manzoni, il panettone non mancava mai. Infatti lo si mangiava tutti i giorni, così, almeno, con la seconda moglie Teresa. Ma era veramente sempre Natale in questa famiglia?

 

Siamo andati ad “incontrare” Don Lisander nella sua casa di via Morone 1, dove lo scrittore visse gran parte della sua lunga vita.

 

Alessandro aveva sposato nel 1808 la giovanissima Enrichetta Blondel e in pochi anni erano già nati due figlioletti.

 

La coppia desiderava allargare ancora di più la famiglia e serviva, dunque, una casa adeguata. Lo scrittore aveva quindi acquistato nel 1813 questo palazzetto di tre piani nel centro di Milano, zona VIP, dove abitava l’aristocrazia cittadina.

 

Questa nuova sistemazione soddisfaceva appieno l’onnipresente madre di Alessandro, Giulia Beccaria, che, pur avendolo abbandonato da piccolo per un nuovo amore, Carlo Imbonati, alla morte di questi, lo “ritrovò” vivendo per sempre con lui e la sua famiglia.

 

Scrisse Giulia; “sono contentissima della nuova casa… Ha un aspetto felice sì nell’inverno che nell’estate”. Questa casa aveva anche un bel giardino che ora fa parte delle Gallerie d’Italia.

 

Alla morte del Manzoni, questa casa ebbe qualche cambiamento di proprietà, ma da tempo appartiene al Comune di Milano e ospita il Centro Studi Manzoniani e, dal 1965, il Museo di Casa Manzoni, realizzato dallo Studio de Lucchi.

 

In effetti, andando a visitare questo palazzetto, non entriamo in una casa, ma in un museo, con l’esposizione di oggetti comuni appartenuti allo scrittore, cimeli, quadri, stampe, ed edizioni delle sue opere.

 

Delle dieci sale espositive, solo due conservano un aspetto più domestico: sono la camera da letto al primo piano e lo studio al piano terra. Questo locale, circondato da librerie, è scaldato da un piccolo salotto, da una bella stufa e da un soffitto decorato a cassettoni, appartenuto al precedente proprietario.

 

In una bacheca sono in bella mostra oggetti da scrivania e l’amata tabacchiera.

 

Cogliamo in questo locale due elementi un po’ insoliti che ci aprono un piccolo spiraglio sull’uomo Manzoni. Davanti alla finestra che dà sul giardino, c’è un piccolo tavolino dove Alessandro scrisse parte dei Promessi Sposi; da questo angolino smart working lo scrittore poteva guardare le amate piante o, forse, entrava più luce.

 

Inoltre, nello studio si trova una porta un po’ segreta da dove Alessandro poteva raggiungere, con una scala, direttamente la camera da letto dove trovare un po’ di intimità con la moglie, durante la giornata.

 

Accanto allo studio c’è la stanza dei “giavann” (“stupidotti”, in dialetto milanese) dove Don Lisander incontrava gli amici per chiacchierare; qui visse per qualche tempo anche l’amico fraterno Tommaso Grossi, che fu colui che gli presentò la seconda moglie, Teresa, con la quale, si dice, avesse avuto anche una storia.

 

Al primo piano si trova l’appartamento familiare, nel quale si conserva la camera da letto singola nella quale Manzoni, ormai anziano e vedovo, si spense nel 1873. Questa, purtroppo visibile solo dalla porta, appare piuttosto austera, quasi monacale.

 

Negli altri locali si trovano quadri, cimeli, pubblicazioni delle sue opere (anche in lingue straniere).

 

Peccato che, anche nella sala dove si riuniva la famiglia, non ci sia nulla che richiami un po’ di intimità. Sappiamo da alcuni scritti che spesso Enrichetta qui giocava a mosca cieca con la nidiata di figlioletti, mentre Alessandro e la madre osservavano. Presenti o assenti?

 

Enrichetta scrisse al canonico Tosi: “noi tre siamo perfettamente felici”: lei, la “sposa bambina” che passò la vita tra gravidanze e figlioletti da accudire e morì a 42 anni, proprio il giorno di Natale; Alessandro “con i suoi mali di nervi, le sue angosce nervose più forti che mai” e infine “Madame”, la suocera, piena di acciacchi e definita sempre “la nostra cara madre”.

 

Sappiamo che durante le feste natalizie, e in particolare a Capodanno, a casa Manzoni si mangiava una semplice torta contadina, la “carsenza” di cui Enrichetta, di padre svizzero, era ghiotta. E il panettone? Arriverà con la seconda moglie, la milanese Teresa…

 

A presto…

Un filo di malinconia alla Chiesa di Sant’Angelo

Sarà questa l’ultima festa della chiesa di Sant’Angelo col mercatino, la benedizione degli animali e l’apertura del chiostro?

 

Speriamo di no, ma molto cambierà per questa chiesa che si trova tra via Moscova e corso di Porta Nuova.

 

Sul suo sagrato, tradizionalmente, si tiene, il lunedì dopo Pasqua, la mostra mercato di fiori, piante e piccoli animali.

 

Mercoledì 4 ottobre, festa di San Francesco, è stato l’ultimo giorno di apertura del convento dei Frati Minori Francescani; c’è il timore che i bei mattoni rossi lombardi possano essere in parte sostituiti dai vetri a specchio di qualche nuovo edificio di oggi.

 

La zona è molto appetibile e le vocazioni poche; inoltre anche le chiese, e i conventi annessi, sono costrette a ridurre gli orari di apertura o addirittura a chiudere i battenti, anzichè lasciare aperte le porte. Siamo perciò venuti qui quasi per un ultimo saluto alla chiesa (che resterà comunque aperta con poche Messe), alla fontana di San Francesco, con le sue tortorelle, e al convento con il bel chiostro, forse animato per l’ultima volta.

 

Due parole sulla chiesa, il convento e la fontana. La chiesa, intitolata a Santa Maria degli Angeli, come quella di Assisi, è nata all’inizio del Quattrocento quando il francescano San Bernardino da Siena, giunse a Milano e tredici giovani vollero seguirlo facendosi frati minori.

 

Le autorità cittadine donarono alla piccola comunità una chiesetta con annessa dimora. Nel corso del secolo successivo, dopo un incendio e grazie alle generose donazioni, venne edificata l’attuale chiesa, una delle poche in stile barocco a Milano, terminata alla fine del Cinquecento. La facciata, invece, fu completata nella prima metà del Seicento.

 

La chiesa ha un’unica, ampia navata con otto cappelle per lato. Ecco alcune notizie sulla sua storia.

 

L’interno, piuttosto buio, presenta dipinti di illustri pittori (Gaudenzio Ferrari, Antonio Campi, il Morazzone, il Fiammenghino, Camillo Procaccini, Bernardino Luini, Simone Peterzano,…); è una vera pinacoteca da conoscere e valorizzare.

 

Il convento attuale venne realizzato da Giovanni Muzio alla fine degli anni Trenta del Novecento.

 

Il chiostro di questo convento conserva le colonne di quello precedente cinquecentesco. Il complesso è stato sede di diverse attività anche sociali, artistiche, culturali e ricreative, come l’auditorio Angelicum, oggi chiuso, o quest’ultimo mercatino.

 

Sul sagrato della chiesa c’è la famosissima e tenera fontana di San Francesco, opera del 1926 realizzata da Giannino Castiglioni, in semplici blocchi di granito anzichè in pregiato marmo, per richiamare l’umiltà del Poverello di Assisi.

 

E’ una delle più amate dai milanesi, con la statua del Santo mentre predica a delle deliziose tortorelle di bronzo, spesso affiancate da veri piccioni. Sul bordo della fontana alcune parole del Cantico delle Creature.

 

Ci stiamo chiedendo in che direzione stia andando la nostra città. Il suo tempo sembra scandito sempre più dalle diverse “settimane” (della Moda, del Design, del Mobile…), la circolazione diventa sempre più difficile mentre l’inquinamento non arretra, le case escludono per i loro prezzi proibitivi, i turisti “mordi e fuggi” sostituiscono gli abitanti dei quartieri, il problema della sicurezza crea ansia e solitudine, la conoscenza di Milano sembra limitarsi sempre più alle zone cult.

 

Anche la scelta di chiudere il convento di Sant’Angelo va in questa direzione? Non lo sappiamo, ma ci ricorderemo questa festa con la malinconia che prende quando si ripongono gli addobbi che ci hanno rallegrato il Natale. Verrà un altro Natale, perchè Milano è in grado di rinascere. Ai frati che lasceranno questo convento un sincero grazie, un affettuoso saluto e, speriamo, un arrivederci…

 

A presto…

San Maurizio (parte seconda): incontriamo i personaggi degli affreschi

La prima impressione, entrando nell’aula dei fedeli di San Maurizio, è quella di trovarci in una folla di affreschi dove tutto lo spazio delle pareti è sold out. I tanti dipinti dai toni caldi e armoniosi sembrano quasi i tasselli di un unico, grande affresco del primo Cinquecento, un’unica storia fatta di tante storie.

 

Un po’ diversa è l’aula un tempo riservata alle monache, al di là del tramezzo, dove il grande coro e l’imponente organo tolgono la visione d’insieme degli affreschi alle pareti.

 

Solo un bel cielo blu con le immagini (che sembrano quasi figure ritagliate) di Dio Padre e degli Evangelisti, sotto il balcone dietro l’altare, ci colpisce per la diversità di colore e la presenza di spazi vuoti tra le stelle.

 

Forse è un messaggio al nostro spirito?

 

A una folla di affreschi sulle pareti di questa chiesa corrisponde anche una folla di personaggi sia in scene corali, sia isolati. Ci hanno colpito alcuni putti che sembrano giocare a palla, una Sibilla XXL e questo “palestrato” dal taglio di capelli attualissimo; gli mancano solo i tatuaggi per essere del nuovo millennio…

 

E poi ci sono loro: le Sante, donne dall’incarnato chiaro, capelli biondi raccolti secondo la moda dell’epoca, occhi dolci e malinconici, labbra ben disegnate e abiti colorati, con eleganti drappeggi.

 

Molte sono le figure femminili dipinte. Il Monastero, infatti, era un convento benedettino di clausura femminile dove si ritiravano le fanciulle della famiglie più in vista di Milano, sacrificate, spesso, per tutelare il patrimonio familiare e, al tempo stesso, dare lustro alla propria casata con ruolo di Badessa. Vi ricordate Gertrude, la Signora di manzoniana memoria?

 

Le donne rappresentate negli affreschi sono davvero molte e possono fornire indizi per conoscere come era la “milanese” bene di quel tempo.

 

Entriamo piano piano in questo mondo femminile della prima metà del Cinquecento partendo da quanto ci raccontano due artisti (ops! anche allora i maschi spiegavano le donne?) legati a questo convento: il pittore Bernardino Luini e lo scrittore Matteo Maria Bandello, che ha dedicato una sua opera a Ippolita Sforza, sponsor di San Maurizio.

 

Matteo era un frate domenicano del convento di Santa Maria delle Grazie, la chiesa degli Sforza e dell’Ultima Cena. Colto, viaggiatore, spirito arguto, era un uomo di corte e, come confessore, grande conoscitore dell’animo umano e osservatore della società del tempo, che racconta nelle sue Novelle.

 

Ippolita, come racconta il Bandello, era la primadonna di un cenacolo di corte, frequentato da dame erudite, studiose di latino e compositrici di poesie in “idioma italiano” “come… la moderna Saffo, la signora Cecilia Gallerana contessa Bergamina [la Dama con l’Ermellino]”.

 

In questo cenacolo culturale c’era anche “la nobile e valorosa Luzia Stanga, che con la spada fa paura a molti bravi… e certamente se li padri volessero permettere alcune de le figlie darsi agli studi letterari e anco a l’armi, molte riusceriano eccellentissime, come fu per lo passato”. Sono forse le antenate delle eroine guerriere dei nascenti poemi cavallereschi o delle più recenti Lady Oscar e Mulan?

 

Le donne milanesi sono dunque colte, intraprendenti, social, eppure dipendenti e sottomesse alla volontà paterna e all’autorità maschile. Guardiamo le due lunette a fianco dell’altare: in quella di destra Ippolita è vestita con un sontuoso abito bianco e oro e appare giovane anche se, poco più che quarantenne, è appena mancata. La figlia Alessandra, allora già monaca, dolce, sorridente, dal bel profilo e dalla labbra rosse, intercede per lei.

 

Sono figure luminose, splendenti padrone della scena, ben diverse dal padre e marito, Alessandro Bentivoglio, che appare, sulla lunetta a fianco, personaggio sbiadito, triste e meno impattante. Pare quasi un omaggio al mondo femminile dell’epoca, ma la realtà era ben diversa.

 

Sappiamo che il Bandello, su incarico dei Bentivoglio, aveva cercato in precedenza di combinare un matrimonio tra Alessandra e un nobile, Roberto Sanseverino, conte di Caiazzo, ma questi era già impegnato. Per la fanciulla si aprirono quindi le porte di questo convento ricco, colto e prestigioso del quale divenne poi per sei volte Badessa. Aveva portato al convento una dote così ricca che, si ritiene, possa essere stata anche lei una committente degli affreschi. 

 

Senza dubbio Alessandra conobbe il Luini, autore di tantissimi dipinti del convento. Il pittore aveva vissuto una storia d’amore con una bella e nobile fanciulla di Monza, Laura Pelucca, mentre dipingeva nella villa di questa famiglia.

 

Ne era nato un figlio, Evangelista, e, per il disonore, Laura venne mandata in convento e il bimbo affidato al Luini. Quante “Laure” sono state dipinte come Sante e Martiri, bellissime, di una soffusa malinconia e di una sofferta accettazione degli eventi?

 

C’è una Santa, però, che non guarda pudicamente verso il cielo o la terra, ma vuole incrociare e sostenere lo sguardo di chi la osserva: è Santa Lucia, che ha il viso di una dark lady dell’epoca, Bianca Maria di Challant.

 

La giovane, non nobile ma molto ricca di nascita (aveva una dote maggiore di quella delle fanciulle Sforza), si era sposata prima con un anziano nobile, poi, rimasta vedova, con un conte. Aveva vissuto diverso tempo alla corte di Ippolita che le era molto affezionata. Libera e vivace, aveva avuto molti amanti, tra cui anche il mancato fidanzato di Alessandra, più o meno sua coetanea. Bianca Maria venne accusata di essere la mandante dell’omicidio di un ex-amante che l’aveva diffamata e pertanto fu condannata alla decapitazione. Il Luini aveva forse assistito a questa esecuzione e se ne era ispirato per dipingere il martirio di Santa Caterina di Alessandria.

 

Come mai una dark lady presta il volto a ben due Sante nella chiesa dove i nobili dell’epoca potevano riconoscerla? Santa Caterina, secondo la tradizione, venne martirizzata perchè, in quanto cristiana, non aveva sacrificato agli dei pagani e si era anche rifiutata all’Imperatore; fu condannata ad essere dilaniata dalle ruote dentate (sono forse l’immagine delle calunnie che possono straziare?), ma fu salvata dall’intervento degli angeli che distrussero le ruote. Venne quindi decapitata.

 

A Santa Lucia, invece, vennero strappati gli occhi… Perchè il Luini fece di Bianca Maria la vittima di così crudeli martirii? L’anima inquieta di questa donna non avrebbe trovato ancora pace e si dice torni ancora come fantasma nella sua Milano, durante la notte di Halloween

 

C’è un’altra dark lady dipinta a San Maurizio: Salomè. Eccola in un famoso dipinto del Luini.

 

Guardiamo, invece, ora l’affresco in San Maurizio. Il volto di Salomè è ben diverso da quello dell’iconografia classica. Esprime la soddisfazione per il proprio misfatto, che ne altera i lineamenti,

 

Anche i due uomini che, in un altro affresco, sono accanto a Gesù, hanno il viso distorto dalla malvagità che “dipinge” i moti del loro animo, come Leonardo aveva insegnato.

 

Infine un consiglio: non perdiamoci una visita a San Maurizio, che ci riserva sempre mille sorprese…

A presto…

 

San Maurizio, una chiesa museo (parte prima)

 

Corso Magenta è una delle vie più ricche di storia milanese e di cose da vedere: inizia con i resti del Palazzo Imperiale Romano di via Brisa e termina con gli edifici Liberty (casa Laugier e Farmacia Santa Teresa) all’angolo con piazzale Baracca. Percorrendolo, a piedi o in tram, incontriamo via via il Cenacolo, Santa Maria delle Grazie, la Casa degli Atellani con la Vigna di Leonardo, Casa Medici e altri palazzi storici (Litta, Stelline), il Museo Archeologico e la chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore. Il corso ci mostra interessanti facciate di molti edifici, ma, per scoprirne i tesori, dobbiamo entrare, quasi un invito a comprendere che Milano è soprattutto bella dentro.

 

San Maurizio al Monastero Maggiore

La nostra passeggiata di oggi ci porta in corso Magenta 15 per visitare la chiesa di San Maurizio, che faceva parte del Monastero Maggiore. L’ingresso è, cosa rara oggi, libero e gratuito, grazie anche ai Volontari del Touring Club. La facciata in pietra grigia non lascia intuire l’interno di questa chiesa museo.

 

Entrare a San Maurizio è come immergersi in un ambiente tutto affrescato dai migliori artisti del Cinquecento lombardo e dalle loro scuole (Bernardino Luini e figli, Simone Peterzano…).

 

Qui la pittura sembra fondersi con l’architettura, il sacro con il profano e possiamo anche cogliere uno spaccato della società milanese della prima metà del Cinquecento.

 

Un po’ di storia

Il Monastero Maggiore è stato il primo e, senza dubbio, il più importante di Milano riservato alle donne.

 

L’area dove sorse è quella del Circo Romano, del quale si conserva una torre quadrata che è il “campanile” (ora senza più le campane) di San Maurizio.

 

Accanto a questa si trova un’altra torre, poligonale con ben ventiquattro lati, che faceva parte delle mura di Mediolanum ed che ora, splendidamente restaurata, costituisce un settore del Civico Museo Archeologico.

 

Un tempo era, però, usata come infermeria del convento e, prima ancora, probabilmente come luogo di culto per onorare i Cristiani che si pensava vi fossero stati reclusi. Oggi rimangono alcuni affreschi di quel periodo.

 

Per immaginare come fosse un tempo il monastero, andiamo all’adiacente Civico Museo Archeologico, che conserva anche la cripta, i chiostri sopravvissuti e il portone principale.

 

Per uno scorcio un po’ insolito di questo complesso, andiamo, invece, in via Bernardino Luini, sul fianco di San Maurizio. Qui possiamo vedere le due torri insieme da un’altra angolazione.

 

La fondazione, vera o presunta, di questo storico complesso monastico risalirebbe, secondo una tradizione raccontata anche dagli affreschi di San Maurizio, a San Sigismondo, Re dei Burgundi, nella seconda metà del VI secolo. San Sigismondo aveva dedicato in precedenza a San Maurizio una chiesa nell’odierna St. Moritz, sul luogo dove il comandante romano, con la sua Legione Tebea, era stato decapitato per essersi rifiutato, assieme ai suoi soldati, di uccidere i cristiani.

 

Anche San Sigismondo subì poi il martirio e fu gettato in un pozzo con la sua famiglia. Nell’ affresco affresco il Santo offre in dono un modello della chiesa a San Maurizio.

 

Nel corso dei secoli, il monastero venne ampliato con terreni e giardini e anche la chiesa venne rifatta più volte. Infine il convento venne soppresso dalla Repubblica Cisalpina. Tutto passò poi al Demanio: gli orti divennero strade ed edifici. Dell’antico monastero Maggiore restano per fortuna la chiesa di San Maurizio e i chiostri del Museo Archeologico.

L’interno di San Maurizio

L’attuale chiesa, iniziata nel 1503, probabilmente al posto di una più piccola, fu realizzata, forse, dal Dolcebuono o dal Bramantino. Importanti sponsor di San Maurizio sarebbero stati Ippolita Sforza, nipote di Ludovico il Moro, e il marito, Alessandro Bentivoglio, che vediamo ritratti in due affreschi ai lati del quadro sopra l’altare.

 

La chiesa, composta da una sola navata, non è imponente (metri 49,20 per 16,40) ed è suddivisa in due parti diseguali da un muro che non arriva alla volta. La prima parte era riservata ai fedeli, mentre la seconda, o coro, alle monache di clausura.

 

Sull’intera navata si aprono diverse cappelle, tutte riccamente affrescate, sopra le quali corre un lungo matroneo, suddiviso da robuste pareti.

 

Sotto la volta tutta decorata si aprono piccole finestre che creano uno scenografico gioco di luci.

 

Appoggiato al muro divisorio, nella parte pubblica, si trova l’altare maggiore di epoca più tarda, decorato anche con pietre preziose; sopra di questo si trova una doppia grata che permetteva anche alle monache di clausura di partecipare alla Messa e di ricevere l’Eucaristia attraverso il cosiddetto “comunichino”, una piccola apertura chiusa da uno sportello.

Si ritiene che questa grata, prima della Controriforma, fosse molto più grande e che sia stata ridotta alle dimensioni attuali murando la sua parte superiore, dove ora si trova un grande quadro con l’Adorazione dei Magi di Antonio Campi.

 

Da una piccola porta alla sinistra dell’altare si accede, salendo due gradini, all’ aula riservata alle religiose, con il grande coro ligneo di ben cento stalli, progettato, probabilmente, dallo stesso architetto della chiesa.

 

Da qui si alzava la dolce melodia del canto polifonico delle suore che raggiungeva anche i fedeli attraverso gli spazi vuoti sopra l’altare. Era accompagnato dalle note dello splendido organo realizzato tra il 1554 e il 1557 da Gian Giacomo Antegnati, autore anche di quello del Duomo.

Anche l’aula delle monache è riccamente affrescata con scene bibliche e di dolci paesaggi lombardi, ai quali le suore di clausura avevano rinunciato.

 

In una cappella una serie di scene bibliche è dedicata al Diluvio Universale. Gli animali (compresi due mitici unicorni!) salgono a coppie sull’Arca. Guardiamo, però, in basso a sinistra: i cani sono tre!!! Sembra che il terzo sia una sorta di logo usato dall’autore del dipinto…

 

Non abbiamo ancora parlato dei vari personaggi raffigurati negli affreschi… Ci sono ancora tante cose da vedere e tante storie da raccontare, compresa quelle di una dark Lady dell’epoca.

A presto…

Santa Maria della Pace, una chiesa difficile da visitare

Oggi è la festa dell’Immacolata che, con Sant’Ambrogio, rappresenta per tutti i milanesi l’inizio del periodo natalizio.

 

Siamo in un momento non facile, tormentato da guerre in atto, dure repressioni e violenze in molti paesi del mondo. Per questo, oggi, parliamo della chiesa di Santa Maria della Pace, bellissima, dalla storia tribolata, difficile da vedere… come la Pace.

 

Questa chiesa si trova in via San Barnaba, alle spalle del Palazzo di Giustizia. Sembra quasi in disparte, chiusa da un cancello che la esclude dalle visite dei fedeli.

 

Da alcuni anni è in uso, con alcuni bassi edifici di pertinenza, all’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e viene aperta al pubblico solo il primo giovedì del mese con orario piuttosto limitato.

 

Non è facile dunque visitarla, anche se ha tanta storia di Milano da raccontare. Venne, infatti, fatta costruire, assieme all’adiacente convento (oggi Chiostri dell’Umanitaria) nel XV secolo grazie alle donazioni di Bianca Maria Visconti e del figlio Galeazzo Maria Sforza per Amedeo Menez da Silva, frate francescano portoghese, non sempre ortodosso, con fama di taumaturgo, oggi Beato.

 

Di lui sappiamo che ispirò non poco anche l’opera di Leonardo da Vinci, presente a quei tempi a Milano.

 

 

Erano anni molto importanti per l’architettura milanese che vide nascere la Ca’ Granda, Santa Maria delle Grazie e San Pietro in Gessate, con i loro caldi mattoni a vista, così milanesi.

San Pietro in Gessate

 

Santa Maria della Pace fu realizzata in circa trent’anni (1466/97) ed ha un’unica navata con diverse cappelle; nel Cinquecento le fu aggiunto il campanile.

 

Ora appare piuttosto spoglia, se si escludono gli affreschi sopra l’altare, che, però, si possono guardare da piuttosto lontano.

In passato aveva altri affreschi molto importanti, poi spostati in altre sedi o andati perduti. Ora sui capitelli rimangono ancora gli stemmi del Ducato e, se guardiamo verso l’alto, possiamo vedere ciò che resta di alcuni dipinti e le parole PAX e IHS ripetute sulla volta, quasi un invito alla preghiera.

La storia di questa chiesa è stata molto tribolata durante l’Ottocento. Venne sconsacrata da Napoleone, utilizzata come magazzino, ospedale, scuderia. Infine venne acquistata da una importante famiglia e trasformata in una sala per concerti di musica sacra, il famoso Salone Perosi, che poteva contare sullo splendido organo di Pietro Bernasconi del 1891.

 

Agli inizi del Novecento la chiesa venne riconsacrata e passò alle Suore di Santa Maria Riparatrice, che vi restarono fino a metà degli anni Sessanta. Poco dopo venne acquistata dall’Ordine del Santo Sepolcro, che trasferì, negli edifici adiacenti, la propria Luogotenenza per l’Italia Settentrionale.

 

Quest’Ordine, che risale ai tempi della Prima Crociata, era stato fondato da Goffredo da Buglione nel 1099 per la difesa dei valori cristiani. Attualmente si occupa di sostenere scuole interreligiose in Terra Santa e altre opere sociali.

 

Chiudiamo questa breve “visita” sostando davanti a Lei, la Madonna della Pace. Posto in una cappella, il dipinto mostra il Bambino in una mandorla dorata come culla, vegliato da Maria con un abito tempestato dalla parola PAX, un bene prezioso dal valore inestimabile.

A presto…

 

 

 

 

Un nuovo Museo d’arte: dagli Etruschi a Andy Warhol

Ci troviamo davanti alla Fondazione Rovati, nello storico palazzo di corso Venezia 52, dove, da qualche settimana, è stato inaugurato un museo con reperti etruschi e… non solo. Siamo, infatti, in un luogo e in una atmosfera di incontri tra antico e moderno che creano dialogo e movimento, il che fa di questo museo qualcosa di molto milanese.

 


Il luogo. Il palazzo sorge quasi al termine di corso Venezia, dove i neoclassici caselli del dazio di Porta Orientale e i Bastioni segnavano il confine tra la città, con l’elegante e nobile Corsia delle Carrozze, e il più vitale e popolare Borgo esterno con il Lazzaretto e l’odierno corso Buenos Aires.

 

 

Il Palazzo. Quattro telamoni sono i granitici custodi di questo edificio fatto costruire nel 1871 dal Principe di Piombino, dove anticamente si trovavano le ortaglie del convento dei Cappuccini di manzoniana memoria e dove poi era sorto il Teatro della Stadera.

 

 

La ricca borghesia imprenditoriale milanese, però, tra Ottocento e Novecento, cercava dimore eleganti per rendere più manifesto il proprio prestigio o comperando palazzi già esistenti o costruendone dei nuovi, come Palazzo Castiglioni, splendido esempio di Liberty milanese.

 

 

Nel palazzo del Principe di Piombino vennero poi via via ad abitare la famiglia Bocconi (quella della Rinascente e dell’università omonima), la famiglia Rizzoli, i Carraro… infine, nel 2015, passò alla Fondazione Rovati, il medico imprenditore farmaceutico, la cui statua ci accoglie nell’atrio come un buon padrone di casa.

 


Gli ambienti.
Il palazzo, già ristrutturato in precedenza, è stato recentemente ampliato e ridisegnato dallo Studio MCA di Mario Cucinella. Attualmente sono accessibili al pubblico, per il museo, i tre piani centrali.

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Piano Terra. Il grande ingresso (con biglietteria, shop museale, caffè/bistrot e accesso al ristorante del quarto piano) si apre su un bel giardino interno sul quale si affaccia anche un piccolo padiglione espositivo.

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Il piano terra è sempre accessibile liberamente al pubblico, anche senza visitare il museo. Perchè non fermarci per un caffè, magari seduti in giardino?

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Piano nobile. Questo piano museale colpisce anche per l’eleganza degli ambienti. Specchi, boiseries, camini, pavimenti perfettamente restaurati sono inseriti in locali ridisegnati e resi attuali anche attraverso i colori vivaci delle pareti.

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Le opere esposte spaziano e dialogano tra antico e contemporaneo (De Chirico, Andy Warhol…).

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Piano ipogeo. Questo museo offre un’esperienza culturale anche attraverso gli ambienti diversificati e spettacolari e le scelte architettoniche.

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Nella grande e sinuosa sala ellissoidale opere etrusche, esposte con grande eleganza su scaffali lineari, si alternano ad altre contemporanee in un rimando e contrasto continuo. Ecco alcune foto come invito alla visita.

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Le opere della Fondazione saranno esposte a rotazione. Si prevede per ottobre la presentazione, per la prima volta al pubblico, della Stele di Vicchio, una lastra di arenaria con la più lunga iscrizione etrusca su pietra, rinvenuta a Poggio Colla (FI) nel 2015.

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Questo museo, molto innovativo, dispone anche di una children’s room con laboratori didattici e, in un prossimo futuro, sarà aperto anche un altro piano per mostre temporanee e conferenze. Ci sono arte, storia, architettura e cultura: è un museo assolutamente da visitare!

A presto…

 

 

 

 

 

 

L’antico rito della “Nivola” in Duomo

Un lunedì pomeriggio di metà settembre in piazza Duomo: milanesi di corsa, indaffarati come sempre, turisti che passeggiano in attesa della Fashion Week, suoni della quotidianità… Lontano pochi passi persone raccolte intente ad ascoltare antichi salmi: nella nostra Cattedrale si sta celebrando lo storico rito liturgico della “Nivola” che conclude il Triduo dell’Esposizione ai fedeli del Sacro Chiodo della Croce.

 

 

Secondo la tradizione, questo Chiodo, insieme ad alcuni altri, venne rinvenuto a Gerusalemme da Sant’Elena e donato al figlio, l’Imperatore Costantino, come prezioso morso per il suo cavallo.

 

 

Andato perduto, venne poi ritrovato a Milano da Sant’Ambrogio presso la bottega di un fabbro che inutilmente cercava di lavorarlo. La reliquia venne collocata prima nella basilica di Santa Tecla e, quando questa venne demolita, nel Duomo. Era molto venerato dai milanesi, tanto che nel 1575 San Carlo lo portò in processione alla chiesa di Santa Maria presso San Celso, per invocare la fine della pestilenza.

 

La preziosa reliquia è custodita, in una teca di argento e cristallo di rocca, a oltre 40 metri di altezza sopra l’altare maggiore, sempre illuminata da una piccola luce rossa.

 

 

A metà settembre di ogni anno, però, (il 14 settembre si celebra la ricorrenza liturgica) il Sacro Chiodo viene posto su una sorta di “ascensore” con quattro sacerdoti e fatto scendere fino all’altare maggiore. Qui, in un Crocifisso dorato, è esposto alla venerazione dei fedeli.

 

 

Al termine del Triduo, con una solenne cerimonia, la “nivola” lo riporta, in una nuvola d’incenso, alla sommità della navata per un altro anno.

 

 

Questa “nivola” (forse ideata da Leonardo) fu dipinta da Landriani nel 1612 con angeli e cherubini avvolti in soffici nubi. Al termine della cerimonia viene poi avvolta in teli e collocata sopra una porta laterale del Duomo. E’ un vero peccato che la si possa ammirare solamente “in azione” da lontano e durante il rito.

 

 

Purtroppo abbiamo poche foto, un po’ “rubate” durante la funzione religiosa, ma, se lo desiderate, non mancate il prossimo anno a questo appuntamento, forse un po’ dimenticato, di fede e tradizione milanese.

A presto…